Udine | Teatro Palamostre
13 gennaio 1994
16 gennaio 1994
Affinità
Se nel romanzo Le affinità elettive i protagonisti sono i padroni, nello spettacolo di Teatro Settimo questi personaggi non sono mai visibili, ma si concretizzano attraverso il narrare delle loro sei servette che animano la scena.
locandinavoce narrante Giovanni Moretti
È un’angolatura quanto meno inconsueta quella attraverso cui si intravede l’opera di Goethe. Se nel romanzo Le affinità elettive i protagonisti sono i padroni, i signori Edoardo e Carlotta, Ottilia e il Capitano con le loro storie incrociate, nello spettacolo di Teatro Settimo questi personaggi non sono mai visibili, ma si concretizzano attraverso il narrare delle loro sei servette che animano la scena.
E questa l’idea assai bella e affascinante di questo gradevole e insinuante spettacolo: le servette irrompono per raccontare la storia dei loro padroni, una storia quasi spiata dal buco della serratura, vissuta di riflesso, che ha come protagonisti personaggi che nella realtà protagonisti non sono.
La servitù attende l’arrivo dei padroni, c’è tanto da fare, da preparare, l’attesa è elettrizzante, tutto deve essere perfetto, il castello è vestito a festa. E finalmente l’attesa viene ripagata, i padroni arrivano. Li accompagna il Capitano che avrà il compito di curare il loro nuovo fantastico progetto: un grande parco, anche se per i padroni non è importante il suo compimento, quanto il suo essere pensato, progettato, avviato verso una potenziale realizzazione.
Ed è questo il tema dello spettacolo: i desideri, i progetti e la loro realizzabilità. Di come i desideri degli uomini sembrino realizzabili solo attraverso un’accurata preparazione di progetti, eppure proprio il far progetti ne vanifichi infine la realizzazione.
Le servette, rimaste di nuovo sole, nelle lunghe sere d’inverno, combattono la solitudine giocando a raccontarsi tutto ciò che riaffiora alla loro memoria: i ricordi comuni, le speranze svanite, come quella volta che avevano condiviso con trepidazione l’attesa di quel bambino che la signora avrebbe messo al mondo di li a poco e poi lui era morto, come se la loro attesa non fosse valsa a nulla, a nulla i loro preparativi.
I ricordi vanno via via esaurendosi lasciando di nuovo spazio ai giochi. E poi sono ancora racconti, gesti.
La storia non è finita, non può finire perché in fondo non è la loro storia quella che stanno raccontando.
Riproposto ora, a quasi dieci anni di distanza, semplicemente intitolato Affinità e forte della maturazione cresciuta nel tempo trascorso, lo spettacolo conserva tutto il suo fascino, dovuto alla compiutezza formale e felicità espressiva con cui il gruppo torinese, diretto da Gabriele Vacis, abbandonata la pagina goethiana da cui trae spunto e impulso e di cui mantiene la poetica drammaticità inventa un percorso scenico che procede attraverso schegge di vita, frammenti di racconto, affabulati episodi di memoria, che si ricompongono in una trama narrativa e visiva di grande suggestione evocativa.
Lì sono protagoniste le immagini bellissime, con le luci e con i suoni, una scenografia incantevole che sembra nascere dal nulla, dalla grande tela bianca che si stende come un padiglione sulle teste degli spettatori, le lenzuola ricamate, i siparietti di merletto, le canne di misurazione del terreno che disegnano geometrie nell’aria, le cristallerie per il festino con cui compongono la mappa del parco, l’arnia del miele, i riti dell’acqua che accompagnano le gioie e le sventure della casa, il lussureggiante giardino di piante che al termine vengono portate ad occupare l’intero palcoscenico.
Franco De Ciuceis, Il Mattino