Udine | Teatro Zanon
November 2, 1984
November 4, 1984
CONTATTO BECKETT
L'ultimo nastro di Krapp
Il Progetto Beckett directs Beckett è l'ultimo capitolo del bizzarro sodalizio tra uno dei massimi drammaturghi del '900 ed un ex ergastolano, divenuto attore, autore, regista e la sua compagnia San Quentin Drama Workshop.
CREDITS...
L’ultimo nastro di Krapp
E c’è anche il quarto atto.
Se i cambiamenti non sono altro che permutazioni di elementi indifferenti; se il domani del primo giorno di Godot è solo una ripetizione immutata di ieri, un domani o uno ieri in cui Clov sarà ancora fermo davanti alla porta, con Hamm che ripete la sua infinibile storia: allora, cosa può essere una testa di compleanno se non una celebrazione dell’indifferenza del tempo?
L’ultimo nastro di Krapp è proprio questo tipo di festa di compleanno.
Il vecchio Krapp celebra ogni anno il suo genetliaco concedendosi solitari brindisi e scorpacciate di banane, incidendo su un nastro magnetico riflessioni e rendiconti dell’ultima annata e ascoltando vecchi nastri, dei quali tiene un accurato catalogo.
Allora: Krapp brinda e mangia banane, poi mette in macchina la «bobina cinque scatola tre».
«Trentanove anni oggi» comincia la voce, ma subito dopo passa a parlare di «dieci o dodici anni fa». O meglio, la voce dichiara che ha appena finito di girare il nastro di dieci o dodici anni fa: quando Krapp, conti alla mano, aveva ventisette o ventinove anni.
La voce trentanove commenta la storia appena ascoltata dalla voce ventisette o ventinove: una storia d’amore, forse, con una certa Bianca, forse, con una gita in barca sul lago, forse, col sole sugli occhi e con la fine di tutto; perché tuffo nasce già finito.
Stop.
Krapp toglie la bobina cinque scatola tre e inserisce una bobina vergine, comincia a incidere.
«Appena finito di sentire quel povero cretino per il quale mi prendevo trent’anni fa». Dunque ora è Krapp sessantanove (39+30) a parlare.
Continua ricordando, tra l’altro, le sue magre prestazioni sessuali di adesso con una tale Fanny. Poi, di colpo, toglie il nastro, lo butta via e reinserisce la bobina cinque scatola tre: quella del Krapp trentanove. Ascolta la sua voce: ma è il racconto di Krapp ventisette o venti nove, quello di Bianca e dell’ amore e della fine di tutto, forse, che si sente. Fine.
Per l’ultima volta, allora, qual è il senso di tutto questo?
«Forse i miei anni migliori sono finiti. Quando la felicità era forse ancora possibile. Ma non li rivorrei indietro. Non col fuoco che sento in me ora. No, non li rivorrei indietro» sono le ultime parole, prima del silenzio.
Ma di quale Krapp? Ventisette, ventinove, trentanove, sessantanove...
E pure scegliendo un numero, chi è che parla? E’ Krapp o Vladìmiro o Estragone o Hamm o chiunque o
chiunque o nessuno...
Due parole, per concludere
Succede con Beckett il contrario di quello che succede con i bambini stranieri. Per questi ultimi, è tale lo stupore di sentirli assolutamente padroni di una «forma impadroneggiabile» che quasi non pensiamo al contenuto di quella forma. Per Beckett, al contrario, è tale lo stupore di vederlo assolutamente padrone di un «contenuto impadroneggiabile» che quasi non pensiamo alla forma che, pure, quel contenuto padroneggia.
Si è detto spesso che nelle storie di Beckett non c’è: senso. Ma il senso c’è: solo che non si sviluppa. E’ per eccesso di «esserci» che il senso non compare.
La tautologia è logica ma non sviluppa un filo logico. Dunque, nelle storie di Beckett, dove tutto è uguale a tutto, e quindi dove tutto è tautologia, non si sviluppa un filo logico.
Ma anche questo non e del tutto vero. E’ un po’ più vero del dire che il senso non c’è, ma non è ancora del tutto vero. Del tutto vero è che il filo logico c’è, ma è continuamente spezzato.
Chiamandolo in modo un po’ diverso, possiamo dire che Beckett spezza continuamente il «filo del discorso»: lavora su frammenti discreti e ben delimitati.
Questo ci porta ad una conclusione e a una domanda tutta da espletare.
La conclusione è che Beckett è l’unico esempio sommo di «teatro dopo il cinema»: e parlo proprio dei testi di Beckett, non delle messe in scena.
Lavorando su spezzoni (di filo del discorso) assolutamente circoscritti oltre che autonomi, Beckett può operarne il montaggio, nel senso cinematografico stretto, quasi preistorico, in cui lo intendeva Eisenstein: accostare frammenti indipendenti e lasciare allo spettatore (o al lettore) il compito di saldarli in una continuità narrativa. Di qui, sia detto per inciso, l’ossessiva precisione delle didascalie di Beckett. Beckett non prevede (o addirittura impone) la messa in scena, ma costruisce sulla carta frammenti non dialogici con i quali articolare e intricare ulteriormente il montaggio. E prova ne sia il fatto che molti dei suoi testi, così ricchi di didascalie «visive», sono stati scritti (o pensati) per la radio: cioè per un teatro che non è senza visioni, ma è solo al buio.
Studiare i testi di Beckett è oggi, credo, la lezione più avanzata e più radicale per capire qualcosa del montaggio in teatro, cioè per affrontare quel «teatro dopo il cinema» che è l’unico importante (al di là di tendenze e correnti) dei giorni nostri.
E questo ci porta alla domanda tutta da esplorare di cui dicevo più sopra.
Perché Beckett costruisce si frammenti recidendo in modo preciso il «filo del discorso», ma le cesure sono fatte secondo un ritmo definito e funzionale. Va da sé che non sono fatte a caso, ma c’è di più: le cesure seguono una «pulsazione particolare» e funzionale all’effetto complessivo di montaggio.
Come? Beckett certamente lo sa fare e, forse, anche lo sa Noi non lo sappiamo certo e, penso, pochi lo sanno fare.
C’è una novella in Teste-morte che si intitola Bing. Bing non è né un personaggio né una cosa né nient’altro. E’ solo un segnale senza significato che, insieme all’altro hop, scandisce, cioè ritma, il filo del discorso.
Forse con quel titolo Beckett ha voluto metterci sulla strada per finirla una buona volta, come tutti i suoi personaggi raccomandano, con la ricerca del «messaggio»: è problema degnissimo ma, proprio per esserlo, è del tutto privato.
E’ una strada tutta da esplorare, come ho detto. In ogni caso, non è quella di restare stupefatti davanti a ciò che appare, ma di cercare al di là.
Franco Ruffini