Colugna | Teatro Luigi Bon
November 19, 1993
November 21, 1993
La notte poco prima della foresta
Parigi. Una notte di pioggia violenta, continua come il flusso di parole che lo «straniero» rovescia sul mondo che lo esclude.
CREDITSluci Paolo Manti
Parigi. Una notte di pioggia violenta, continua come il flusso di parole che lo «straniero» rovescia sul mondo che lo esclude. Parole toccanti proprio perché negano, sia all’attore che allo spettatore, ogni possibilità di partecipazione sentimentale; parole potenti, capaci di superare i contenuti del racconto, parole che hanno in se stesse la propria forza ed il peso e la consistenza della materia. Parole estreme, di rabbia, di desiderio, di paura, di rivolta di un «diverso», braccato se appena si rivela, uscendo dal flusso anonimo della folla urbana. Sogni, riflessioni, ricordi, incubi raccontati ad un altro, «come un angelo in mezzo a questo casino», che forse un altro non è. La vicenda si svolge forse in un cantiere o in un anfratto della stazione ferroviaria o sotto un ponte. Un luogo dove ci si ripara dalla pioggia.
Tutto è crudamente reale ed è questa crudezza che ci aiuta ad aprire un varco verso l’interiorità del protagonista. Il personaggio cerca disperatamente di comunicare la valanga di visioni, pensieri, sentimenti e utopie che gli passano per la mente. La sua condizione di emigrato è una condizione sociale ed esistenziale che sembra essere eterna e che determina l’evidente diversità del suo comportamento. Lo stato di «straniero» è la porta per entrare nella tempesta del suo modo interiore. Anche la scena, il luogo dell’ambientazione è il dettaglio di un posto duramente realistico ed è proprio questo, per paradossale contrasto, a dare forza al racconto di un altrove: il mondo del protagonista. Un percussionista interagisce dal vivo con l’attore, facendo da contrappunto all’energia delle sue parole e sottolineando il senso minaccioso della pioggia e della notte.
Giampiero Solari
Ho trovato lo spettacolo di Asti il più bel Koltès che si sia visto in Italia, sorprendente e commovente. L’emarginato del testo originale, pur nel nobile francese dell’autore è un disgraziato, vagamente maghrebino, che cerca rifugio dalla pioggia sotto una tettoia e dalla solitudine nelle sue avance a un altro sconosciuto. L’attore italiano, Massimo Venturiello, ne fa un napoletano, con un lieve abbassamento del livello stilistico compensato appunto dal contributo della parlata partenopea. Con la sua prepotente presenza di macho Venturiello sembra abbandonare in parte l’ambiguità sessuale dell’originale, ma la carica delle sue aspirazioni (il suo «Corro, corro, corro» verso una possibile mano tesa in simpatia è mozzafiato) e la disinvoltura delle sue rapide imitazioni della gente che gli sta intorno, indifferente o crudele, sono efficacissime.
Guido Almansi, Panorama